Alessandro fugnoli il rosso e il nero

Lo storico scozzese Niall Ferguson tira un sasso in piccionaia e sostiene che il punto di crisi tra Stati Uniti e Cina su Taiwan è sempre più vicino e potrebbe diventare ben visibile già alla metà di questo decennio, quando il rafforzamento navale cinese porterà a un equilibrio di forze nell’area. Che cosa faranno a quel punto gli Stati Uniti, impegnati formalmente a intervenire in caso di crisi ma restii a rafforzare la loro presenza? Che cosa sceglierà Biden, se toccherà a lui gestire una possibile crisi, tra la rischiosa strada dello scontro e la ritirata? Lo scontro, nota Ferguson, potrebbe anche essere limitato al terreno delle sanzioni, ma rischierebbe comunque di avere una ricaduta pesante sull’America stessa e di compromettere gli sforzi per creare un forte e duraturo ciclo espansivo. Probabilmente, dice Ferguson, l’America rinuncerebbe a impegnarsi in una sfida dall’esito incerto, ma questo ne disvelerebbe la natura di tigre di carta. Per l’America si tratterebbe allora di rivivere l’umiliazione che Gran Bretagna e Francia subirono nel 1956 con la crisi di Suez. Fu in quel momento, concordano gli storici, che divenne evidente quella perdita di status delle due potenze europee che era già iniziata da molto tempo. Suez non fu presa bene né dalla sterlina né dalla borsa, ma la vita continuò. Parigi e Londra sopravvissero, ovviamente, e vissero bene, nel complesso, la fase storica del loro declassamento, ma qualcosa si era rotto per sempre. A Ferguson ha risposto tra gli altri Richard Haas, eminenza grigia della politica estera americana, sostenendo che l’America è ancora in tempo per essere all’altezza della sfida cinese, ma a condizione che ci sia un impegno in questo senso anche da parte degli alleati. Comunque si evolvano le cose, aggiungiamo noi, America ed Europa si stanno preparando alla possibile perdita di Taiwan, il centro mondiale della produzione di macchine per la produzione di semiconduttori, stimolando energicamente, a suon di decine di miliardi, la ricostruzione di un’eccellenza nel settore che negli anni è andata affievolendosi. Gli stessi taiwanesi stanno costruendo impianti in America. La geopolitica, in ogni caso, non agiterà i prossimi anni solo sulla questione di Taiwan. Come nota Louis Gave, l’Azerbaigian ha appena inflitto una cocente sconfitta al forte e ben organizzato esercito armeno con l’aiuto dei poco costosi ma efficaci droni turchi. E con i droni il piccolo Yemen sta minacciando le installazioni petrolifere saudite e mettendo sulla difensiva il grande e ricco blocco formato da Arabia ed Emirati, che dispone di un grande numero di costosi giocattoli da guerra comprati in America. Cambia insomma il modo di fare la guerra. Ancora più dei droni, il cyberspazio può invogliare nuovi soggetti a scendere in campo e ad aggirare le gigantesche macchine da guerra tradizionali. E mentre l’America annuncia un disimpegno progressivo dal Golfo e dal Mediterraneo, Turchia e Russia si installano in Libia di fronte a un’Europa esitante, mentre sotto e di fianco alla Libia la sistematica penetrazione cinese prosegue in tutta l’Africa. Saranno in ogni caso anni impegnativi, se non agitati, anche quelli che ci regalerà l’economia. La scommessa di Biden sul piano monetario e fiscale, ha notato Larry Summers, è la più arrischiata e pericolosa degli ultimi quarant’anni. Può darsi che vada tutto bene, dice, ma è altrettanto probabile che la forte crescita ci porti un’inflazione che metterà radici o che a un certo punto dovrà essere stroncata dalla Fed con una recessione. Tutto è possibile, aggiungiamo, perché ci troviamo a navigare in una notte senza luna. C’era, un tempo, una forza lavoro ben definita e delimitata. Si lavorava 8 ore, si era organizzati in forma quasi militare nelle imprese e non c’era immigrazione. Era facile, allora, contare chi lavorava e chi no, chi era occupato, chi era temporaneamente iscritto alle liste di collocamento e chi sarebbe rimasto tutta la vita fuori dal mercato del lavoro. La curva di Phillips funzionava bene e si aveva quindi uno strumento per capire quando stava per arrivare l’inflazione e andavano alzati i tassi o quando occorreva fare l’opposto. Oggi il lavoro è fluido e atomizzato e si entra e si esce dal mercato del lavoro molto facilmente. Il confine tra un disoccupato e una persona che in certi momenti è disponibile a lavorare e in altri no si è fatto più confuso. Detto tecnicamente, è sempre più difficile misurare l’output gap. In queste condizioni diventano quasi illeggibili i segnali premonitori di inflazione. Si decide allora di navigare comunque, anche veloci, ripromettendosi di frenare solo quando un ostacolo sarà chiaramente individuabile. Tutto questo nell’ipotesi di una navigazione veloce. Non manca d’altra parte chi fa notare che gli stimoli fiscali, in un contesto in cui calcolarne i moltiplicatori è molto difficile, rischiano di produrre effetti nel solo momento in cui sono erogati, soprattutto se non sono indirizzati verso investimenti produttivi. Finito l’effetto, la crescita rischia di ritornare alla sua velocità di crociera che, come abbiamo visto nello scorso decennio, non è certo entusiasmante. In questa fase i mercati hanno deciso di concentrarsi solo sull’inflazione e sono arrivati a esagerarne i rischi, almeno nel breve termine. I dati che stiamo vedendo sono abbastanza rassicuranti e infatti i bond sono tornati più calmi. Anche se il top di periodo sui rendimenti è ancora da raggiungere (supereremo il due per cento sul decennale americano tra l’estate e l’autunno) gran parte dell’aggiustamento è cosa fatta. Quando l’aggiustamento sarà stato completato, le borse tireranno un sospiro di sollievo e torneranno a salire. Questo rialzo ulteriore sarà legittimo, ma se sarà accompagnato da discorsi sull’invulnerabilità strutturale dell’azionario nella prossima fase storica sarà bene fare professione di umiltà e mantenere sempre posizioni difendibili anche in circostanze più difficili. I prossimi anni sono un libro ancora tutto da scrivere.

«Il marchio sta andando molto bene, abbiamo avuto un’accelerata nelle vendite e nel fatturato. Siamo a +80% rispetto all’anno scorso. Il cliente ormai si fida del marchio, compra i capi su internet senza problemi» ha spiegato a MFF Filippo Fani Ciotti, managing director di Blazé Milano, mettendo in highlight una stagione più che positiva. «Siamo riconosciuti in tutto il mondo, i nostri mercati principali sono Asia e America che si sono finalmente equiparati. L’europeo è in grande rincorsa dopo il fermo dovuto al Covid. Ma l’italiano vola».

Un corso quindi ampiamente felice quello del marchio che per la presentazione della spring-summer 2023 sceglie l’atmosfera accogliente e privata di un appartamento in via Santa Marta, reso  ancor più stimolante grazie alla collaborazione con Salotto studio. Avvolta dalle luci soffuse e da una live performance letteraria di Matilde Cerruti Quara, la collezione mixa ovviamente la caratteristica attitude sartoriale del guardaroba maschile con un touch femminile e sensuale.

Ci sono colori neutri ma anche motivi floreali e toni vibranti, come è presente il check, il denim e proposte di look scintillanti con pants e jacket con paillettes all-over. L’iconico blazer resta però la firma distintiva del marchio che anche sul digitale replica il successo registrando un buon andamento. «Siamo a un +70%...;